Gli inciampi del sostegno
A quanto pare non c’è modo di evitarlo: il dibattito pubblico sulla scuola in Italia deve girare intorno a quello che della scuola dicono persone che non ne sanno nulla. E che non ne sappiano nulla lo dimostrano al di là di ogni ragionevole dubbio. Bisognerebbe ignorarli e rivolgere l’attenzione a chi i problemi della scuola li conosce davvero. Perché allora parlo dell’ultima uscita di Galli della Loggia sul tema dell’inclusione scolastica (Il dibattito sulla scuola e la sfida dell’inclusione, nel “Corriere della Sera” del 21 gennaio)? Perché, appunto, ormai ne hanno parlato tutti, sia pure per indignarsi; ma anche perché, pur in un contesto di cialtronaggine tutta italiana, dice una cosa vera. O due.
È una evidente cialtronata dichiarare che non si ha alcuna intenzione di “auspicare il ritorno alle classi differenziali di un tempo” e scrivere qualche riga dopo:
è proprio sicuro che ad esempio, perlomeno nei casi gravi di disabilità intellettiva, di disabilità motoria, piuttosto che essere immersi in un ambiente totalmente altro assistiti da un incompetente non gioverebbe di più l’inserimento in un’istituzione capace di prendersi cura di simili casi in modo più appropriato e scientificamente orientato?
Per Galli della Loggia il fatto che questo inserimento non abbia nemmeno un particolare valore come educazione alla tolleranza è dimostrato dal fatto che crescono “a vista d’occhio” tra i giovanissimi episodi di violenza e di bullismo. Se Galli della Loggia adoperasse uno strumento un po’ più affidabile del suo occhio, come le statistiche, saprebbe che la fascia d’età che fa dai 14 ai 24 anni è la più attiva nel volontariato presso le associazioni che si occupano di diritti civili, ambiente e pace, oltre ad essere molto impegnata nel volontariato in generale (dati Openpolis).
Veniamo alla cosa vera, o che almeno vale la pena di discutere. Galli della Loggia afferma che “nella maggioranza dei casi l’insegnante ‘di sostegno’ non ha alcuna preparazione specifica se non alcune vaghe nozioni d’ordine generalissimo apprese in un corso annuale”. Aggiunge che gli insegnanti “di sostegno” – chissà perché tra virgolette – “ambiscono in realtà a lasciare il loro ruolo per inserirsi nel ruolo normale d’insegnamento”. Quest’ultima è una illazione, e come tale non merita alcun commento. Allo stesso modo si potrebbe dire che gli insegnanti in generale sono persone che non sono riuscite a realizzarsi in altro modo e hanno cercato nella scuola un ripiego. Chiacchiere. Null’altro.
Il problema della formazione degli insegnanti di sostegno è però reale. Naturalmente la loro preparazione non si limita alle “vaghe nozioni” di cui parla Galli della Loggia, che pure di vaghe nozioni sembra intendersi parecchio. Vero è che un docente di sostegno si trova ad affrontare situazioni diversissime. La categoria di studente con sostegno comprende allo stesso modo lo studente con un lieve ritardo intellettivo, quello con un ritardo un po’ più grave, lo studente Asperger (termine che è uscito dal DSM, ma che è ancora di uso comune), lo studente con autismo a basso funzionamento, lo studente cieco, lo studente con sindrome di Down, lo studente con sindrome di Williams, lo studente paraplegico. E potrei continuare a lungo. Lavorare con ognuna di queste persone richiede una preparazione lunga e complessa. È semplicemente impossibile che una stessa figura professionale possa avere competenze sufficienti per lavorare con la stessa efficacia con uno studente o con l’altro. Quello che accade è, nella migliore delle situazioni, che il docente si adatta come può, compra qualche libro, si documenta: cerca di autoformarsi. Ma può accadere anche – e accade spesso – che il docente di sostegno sia semplicemente abbandonato a sé stesso, mandato allo sbaraglio, alle prese con una situazione più grande di lui o di lei, che non ha gli strumenti per affrontare. E le conseguenze le paga lo studente.
Galli della Loggia accenna a “un generale accertamento del merito all’insegna dell’indulgenza” che avviene nel caso del sostegno. E può essere che anche questo sia vero. Certo il dato è significativo: le insufficienze che colpiscono con una certa regolarità statistica tutti gli studenti si riducono invece drasticamente quando si tratta di studenti con sostegno. Ora, sarei il primo a rallegrarmene, se questo significasse che la scuola italiana, così imperfetta e incapace di incidere in condizioni normali, è invece eccezionalmente efficace quando si tratta di studenti con disabilità, con i quali raggiunge infallibilmente i suoi obiettivi. È più probabile che accada un’altra cosa: che la scuola, percependo in modo più o meno chiaro la propria inadeguatezza, la colmi, appunto, con un’indulgenza che si traduce poi di fatto in una sostanziale discriminazione al contrario. Può essere che la scuola, per dirla con le parole di un mio vecchio vicepreside, ritenga che gli studenti con sostegno a scuola vengano “soprattutto per socializzare”. E dunque non importa davvero lavorare sulle competenze cognitive. Può essere che la scuola veda nello studente con sindrome di Down la mascotte della classe, più che un soggetto in formazione che ha diritto a un lavoro serio e rigoroso, non a qualche pacca sulla spalla o ad un applauso di incoraggiamento.
E qui riemerge la domanda di Galli della Loggia: non sarebbe meglio allora avere strutture specializzate per loro? La risposta è no. E non perché la presenza di studenti disabili abbia un effetto positivo, educativo, sugli altri studenti. Uno studente viene a scuola per migliorare, non per servire al miglioramento di altri. Uno studente disabile deve stare nella scuola di tutti perché è un membro della società di tutti. Dopo aver mandato uno studente cieco nell’istituto per ciechi cosa faremo, lo manderemo nella società dei ciechi? Abbiamo bisogno di avere a scuola studenti ciechi per imparare a costruire, partendo dalla scuola, una società in cui possa vivere bene anche un cieco. Ma abbiamo anche bisogno di prendere coscienza del fatto che, se la direzione è giusta – l’integrazione (termine che preferisco a inclusione) è un valore centrale tanto in una scuola quanto in una società democratica – il modo in cui stiamo camminando verso quella direzione non è privo di inciampi.
A quanto pare non c’è modo di evitarlo: il dibattito pubblico sulla scuola in Italia deve girare intorno a quello che della scuola dicono persone che non ne sanno nulla. E che non ne sappiano nulla lo dimostrano al di là di ogni ragionevole dubbio. Bisognerebbe ignorarli e rivolgere l’attenzione a chi i problemi della scuola li conosce davvero. Perché allora parlo dell’ultima uscita di Galli della Loggia sul tema dell’inclusione scolastica (Il dibattito sulla scuola e la sfida dell’inclusione, nel “Corriere della Sera” del 21 gennaio)? Perché, appunto, ormai ne hanno parlato tutti, sia pure per indignarsi; ma anche perché, pur in un contesto di cialtronaggine tutta italiana, dice una cosa vera. O due.
È una evidente cialtronata dichiarare che non si ha alcuna intenzione di “auspicare il ritorno alle classi differenziali di un tempo” e scrivere qualche riga dopo:
è proprio sicuro che ad esempio, perlomeno nei casi gravi di disabilità intellettiva, di disabilità motoria, piuttosto che essere immersi in un ambiente totalmente altro assistiti da un incompetente non gioverebbe di più l’inserimento in un’istituzione capace di prendersi cura di simili casi in modo più appropriato e scientificamente orientato?
Per Galli della Loggia il fatto che questo inserimento non abbia nemmeno un particolare valore come educazione alla tolleranza è dimostrato dal fatto che crescono “a vista d’occhio” tra i giovanissimi episodi di violenza e di bullismo. Se Galli della Loggia adoperasse uno strumento un po’ più affidabile del suo occhio, come le statistiche, saprebbe che la fascia d’età che fa dai 14 ai 24 anni è la più attiva nel volontariato presso le associazioni che si occupano di diritti civili, ambiente e pace, oltre ad essere molto impegnata nel volontariato in generale (dati Openpolis).
Veniamo alla cosa vera, o che almeno vale la pena di discutere. Galli della Loggia afferma che “nella maggioranza dei casi l’insegnante ‘di sostegno’ non ha alcuna preparazione specifica se non alcune vaghe nozioni d’ordine generalissimo apprese in un corso annuale”. Aggiunge che gli insegnanti “di sostegno” – chissà perché tra virgolette – “ambiscono in realtà a lasciare il loro ruolo per inserirsi nel ruolo normale d’insegnamento”. Quest’ultima è una illazione, e come tale non merita alcun commento. Allo stesso modo si potrebbe dire che gli insegnanti in generale sono persone che non sono riuscite a realizzarsi in altro modo e hanno cercato nella scuola un ripiego. Chiacchiere. Null’altro.
Il problema della formazione degli insegnanti di sostegno è però reale. Naturalmente la loro preparazione non si limita alle “vaghe nozioni” di cui parla Galli della Loggia, che pure di vaghe nozioni sembra intendersi parecchio. Vero è che un docente di sostegno si trova ad affrontare situazioni diversissime. La categoria di studente con sostegno comprende allo stesso modo lo studente con un lieve ritardo intellettivo, quello con un ritardo un po’ più grave, lo studente Asperger (termine che è uscito dal DSM, ma che è ancora di uso comune), lo studente con autismo a basso funzionamento, lo studente cieco, lo studente con sindrome di Down, lo studente con sindrome di Williams, lo studente paraplegico. E potrei continuare a lungo. Lavorare con ognuna di queste persone richiede una preparazione lunga e complessa. È semplicemente impossibile che una stessa figura professionale possa avere competenze sufficienti per lavorare con la stessa efficacia con uno studente o con l’altro. Quello che accade è, nella migliore delle situazioni, che il docente si adatta come può, compra qualche libro, si documenta: cerca di autoformarsi. Ma può accadere anche – e accade spesso – che il docente di sostegno sia semplicemente abbandonato a sé stesso, mandato allo sbaraglio, alle prese con una situazione più grande di lui o di lei, che non ha gli strumenti per affrontare. E le conseguenze le paga lo studente.
Galli della Loggia accenna a “un generale accertamento del merito all’insegna dell’indulgenza” che avviene nel caso del sostegno. E può essere che anche questo sia vero. Certo il dato è significativo: le insufficienze che colpiscono con una certa regolarità statistica tutti gli studenti si riducono invece drasticamente quando si tratta di studenti con sostegno. Ora, sarei il primo a rallegrarmene, se questo significasse che la scuola italiana, così imperfetta e incapace di incidere in condizioni normali, è invece eccezionalmente efficace quando si tratta di studenti con disabilità, con i quali raggiunge infallibilmente i suoi obiettivi. È più probabile che accada un’altra cosa: che la scuola, percependo in modo più o meno chiaro la propria inadeguatezza, la colmi, appunto, con un’indulgenza che si traduce poi di fatto in una sostanziale discriminazione al contrario. Può essere che la scuola, per dirla con le parole di un mio vecchio vicepreside, ritenga che gli studenti con sostegno a scuola vengano “soprattutto per socializzare”. E dunque non importa davvero lavorare sulle competenze cognitive. Può essere che la scuola veda nello studente con sindrome di Down la mascotte della classe, più che un soggetto in formazione che ha diritto a un lavoro serio e rigoroso, non a qualche pacca sulla spalla o ad un applauso di incoraggiamento.
E qui riemerge la domanda di Galli della Loggia: non sarebbe meglio allora avere strutture specializzate per loro? La risposta è no. E non perché la presenza di studenti disabili abbia un effetto positivo, educativo, sugli altri studenti. Uno studente viene a scuola per migliorare, non per servire al miglioramento di altri. Uno studente disabile deve stare nella scuola di tutti perché è un membro della società di tutti. Dopo aver mandato uno studente cieco nell’istituto per ciechi cosa faremo, lo manderemo nella società dei ciechi? Abbiamo bisogno di avere a scuola studenti ciechi per imparare a costruire, partendo dalla scuola, una società in cui possa vivere bene anche un cieco. Ma abbiamo anche bisogno di prendere coscienza del fatto che, se la direzione è giusta – l’integrazione (termine che preferisco a inclusione) è un valore centrale tanto in una scuola quanto in una società democratica – il modo in cui stiamo camminando verso quella direzione non è privo di inciampi.
Foto di Mick Haupt su Unsplash.